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La sindrome del manganello

La sindrome del manganello

di Vincenzo D’Anna*

Per la definizione etimologica della parola “manganello” basta consultare la famosa enciclopedia Treccani: “bastone corto e tozzo, in genere usato come mezzo di offesa”. Ebbene, tale arnese fu l’arma preferita delle squadre fasciste per le loro scorribande contro gli avversari del regime. Un precedente storico che ha trasformato, nell’immaginario collettivo, quell’oggetto nel simbolo stesso della violenza, soprattutto quella che viene oggi addebitata ai presunti eccessi compiuti dalle forze dell’ordine. E’ cosa più che nota che nel Belpaese evocare il ritorno del fascismo rappresenti tuttora un argomento ritenuto ancora redditizio dalla sinistra che lo utilizza ogni qualvolta le conviene per mobilitare la propria tifoseria politica oppure per coprire il vuoto pneumatico di idee che l’affligge. Ne consegue che, come un riflesso incondizionato, qualunque provvedimento che inasprisca pene, che detti regole più stringenti riguardanti la sicurezza dei cittadini, venga bollato come il segno di un’incipiente involuzione autoritaria. E quale migliore incentivo utile a rispolverare il perenne ed immarcescibile anti-fascismo militante, se non quello di un governo guidato da una esponente della destra storica tricolore? La sintesi è presto fatta: più ordine sociale, più tutele per gli uomini in divisa, più intransigenza verso le forme di protesta anarcoidi e violente equivale al timore del “fascismo alle porte”, una paura che può essere data in pasto ai militanti come espressione di un subliminale messaggio che il governo si accinge a virare verso forme repressive e liberticide. Da quando il centrodestra è al timone della nazione, non c’è fine settimana che non si proclami uno sciopero. Un dazio che la premier Giorgia Meloni paga alla Cgil di Maurizio Landini che fa da mosca cocchiera alle spente forze di opposizione parlamentare. Contrastare forme estreme di protesta come le occupazioni di strade, cantieri e ferrovie, inasprire le pene contro chi aggredisce la polizia o chi occupa abusivamente le case altrui, diventa, come d’incanto, la manifestazione di un’intolleranza più che una migliore disciplina per difendersi dagli intolleranti. Il filosofo epistemologo K.R. Popper soleva ripetere che le società aperte sono aperte a tutte le opinioni ed a tutte le ragioni ma devono restare chiuse per gli intolleranti. Il provvedimento di legge varato in queste ore dal Parlamento, recante norme sulla sicurezza? Guarda caso contiene proprio disposizioni contro gli intolleranti senza però sopprimere libertà ed esercizio dei diritti riconosciuti ai singoli cittadini. Se mettersi in macchina o prendere un treno diventa un rischio, se giungere ad una meta prefissata diventa un azzardo, se i cortei da pacifici diventano occasioni di guerriglia urbana, se vedersi sottratta la propria abitazione si trasforma in una prassi tollerata, ecco allora che il provvedimento legislativo diventa un argine al caos, al sopruso ed al libertinaggio!! Se la nuova legge inasprisce le pene anche contro l’accattonaggio di cui sono piene le città, oppure contro le truffe in danno degli anziani, per quale motivo la sinistra inscena la pagliacciata dei sit-in nell’aula di Palazzo Madama? Occorreva semmai un più conferente atteggiamento da parte delle minoranze parlamentari, ossia discutere ed integrare la proposta governativa. Meglio valutare semmai l’effettiva efficacia delle norme approvate chiedersi se, a conti fatti, l’inasprimento delle pene sia utile per disincentivare realmente il malvezzo, l’abuso, l’illecito, la violenza verbale e materiale. Ma sappiamo bene che a sinistra esistono dogmi e stereotipi non discutibili, innanzitutto quello che sia la società capitalistica a creare emarginazione e disagio: uno stato di bisogno che implicitamente autorizza determinati atteggiamenti. Una sorta di passepartout, insomma, che apra tutte le porte della giustificazione per taluni eccessi, per gli abusi e per l’illegalità. Una lettura ideologica e preconcetta che fa risalire al corpo sociale stesso la necessità di una libertà esercitata senza responsabilità, di diritti reclamati e dovuti non presenti in nessun codice oppure atto legislativo. Insomma, pur non esistendo la norma che lo consente, ogni precetto punitivo diventa sintomatico di uno Stato repressivo. E di questo passo si è tirato avanti per decenni consentendo ogni sorta di licenziosa facoltà e di spoliazione dei diritti altrui. La sicurezza non ha niente a che fare con l’autoritarismo né la paura con le leggi che tutelano la sicurezza sociale. Se oggi la sinistra non fosse ridotta ad un residuato, un vecchio arnese ideologico, non soffrirebbe la sindrome del manganello.

*già parlamentare

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